La madre de famia

Giuse’ è de maggio e se fa notte.
Questa esclamazione racchiude forse tutta la personalità, la responsabilità e l’impegno delle donne di un tempo. Essa era un’esortazione che più di una moglie rivolgeva al marito, quan­do nel pomeriggio, in campagna, lui faceva più di qualche sosta per farsi un bicchiere e poi aretranchea vicino ajo fiasco per fare il bis e oltre. Tale esortazione era un invito a farlo bere di meno e a fargli riprendere il lavoro perché lei aveva fretta di rientrare in casa, dove aveva molto da fare. In più dimostra che la donna era sempre attenta e guardinga sia riguardo gli stra­vizzi del marito, sia verso il lavoro che avevano da svolgere. Come era abi­tudine di molte, esse mangiavano più velocemente degli uomini, e mentre il marito finiva di mangiare e poi fumare la sigaretta, lei ancora masticando l’ultimo boccone, si metteva a raccogliere le verdure selvatiche da cucinare o a fare qualche altro piccolo “lavoretto”, per poi riprendere il lavoro insie­me al marito.

La mattina, la donna prima di andare in campagna, doveva sistemare la casa, finire di preparare il mangiare per il giorno per loro e per i figli che restavano a casa, poi partiva a piedi dietro l’asino con il marito a cavallo. A volte, arrivava più tardi in campagna, portando sulla testa jo vasciello o la ca­nestra con dentro il mangiare.

(Curioso il termine vasciello che nel tempo si è perso, sostituito da canestra, essi erano adibiti allo stesso scopo, vale a dire contenere quello che doveva essere trasportata sulla testa dalle donne. Jo vasciello, era di dia­metro maggiore, ed era realizzato con la base di vimini d’olmo con i bordi in cannucce spaccate rinforzate da steli di olmo verticali, il tutto irrobustito nel bordo superiore da un intreccio di vimini d’olmo o da vimini di salice. La ca­nestra, invece era realizzata con fini vimini d’olmo scortecciati, con i bordi più alti e era più rifinita. Chissà se il termine vasciello, per la sua grandezza non derivi da vascello – nave da guerra dei tempi andati -. Noi genazzanesi abi­tando nell’entro terra non abbiamo avuto contatti con la cultura marinara; l’unico contatto potrebbe esserci stato durante la battaglia di Lepanto, dove forse qualcuno dei nostri avi, che prestò servizio agli ordini di Marcantonio Colonna che era il comandante della flotta pontificia, al ritorno, rivedendo quei grossi contenitori che le donne portavano sulla testa, li paragonò scher­zosamente a quelle navi sulle quali era stato.)

Era fortunata la donna che aveva la madre o la suocera che restavano a casa, perché a lei poteva affidare i figli e parte delle faccende domestiche. Beata tu; che tie’ la vecchia drendo casa, spesso le dicevano le conoscenti.
Difatti l’aiuto che esse davano in casa, alla figlia o alla nuora era più che rile­vante.

Dopo una giornata di lavoro, il viaggio di ritorno dalla campagna, le giovani madri di famiglia lo faceva, benché a piedi, velocemente. Dovevano sbrigar­si, come in tutte le cose che facevano, sia perché per loro iniziava una nuova giornata di lavoro in casa, sia perché avevano il pensiero dei figli che avevano lasciato dalla mattina. Le donne un po’ più anziane, provate di più dalla fati­ca, tornavano dalla campagna più lentamente, facendosi trainare dall’asino, attaccate alla sua coda. Mentre il marito sistemava l’asino per poi passare in cantina a bere qualche altro bicchiere e farsi la consueta chiacchierata serale con qualche amico di passaggio, lei con la matticella de soreminti e l’erbe selvatiche raccolte, rientrava subito in casa, per preparare la cena.

Preparare la cena allora (fino all’inizio degli anni cinquanta) non era sem­plice. Le donne che andavano in campagna, avendo disponibilità di legna, il cibo lo cuocevano nel caminetto (ajo fuoco), perché il gas, quello in bombo­la, a Genazzano non era ancora arrivato. Le mogli dei commercianti e degli artigiani che il giorno restavano in paese, non avendo la disponibilità gior­naliera della legna, per la cottura utilizzavano i fornelli a carbone, che erano realizzati in muratura. Il carbone veniva messo dentro i fornelli e dopo averlo acceso, per alimentare la combustione, lo “sventolavano” con una ventola caratteristica (la ventela), tipo un ventaglio rigido, formata dalle penne delle ali dei volatili da cortile.
Accendere il fuoco poi, non era un’impresa molto semplice, per­ché la carta era molto rara e specialmente in casa dei contadini era addirittu­ra introvabile, ad eccezione della pochissima carta “paglia”, con cui venivano incartati i pochi prodotti alimentari che acquistavano; tutto allora, veniva venduto sfuso, dalla pasta alle pastine minute per minestre.

Per accendere il fuoco, molto spesso si guardavano i comignoli i cam­mini delle vicine che fumicavano, e ci si recava a casa della vicina per farsi dare na palettata de racia, la quale veniva messa sotto alcune cannucce sec­che spaccate e ai soreminti sicchi chiamati, anche j’ardienti, e poi si soffiava lungamente su di essa per far emettere la fiamma. (A volte, specialmente se la legna era leggermente umida, soffiavano così tanto, che una volta acceso il fuoco avrebbero superato qualunque test spirometrico).

I facioli, l’onnipresente alimento base di varie pietanze, venivano cotti dentro dei piccoli vasi in terracotta dalla armonica forma di anfora, chiama­te pignate, poggiati sulle braci del caminetto. Era una cottura che richiede­va molto tempo e anche una certa attenzione, e normalmente era compito della donna anziana che restava a casa, perché come si consumava la brace, essa veniva sostituita, sia sotto sia addossata ai bordi della pignata.

Finita la cena, la donna provvedeva a lavare i piatti passandoci un po’ di acqua, separando la prima sciacquatura, definita “l’acqua dei piatti” che essendo un po’ grassa veniva messa da parte per essere utilizzata come alimento per il maiale. Separata la parte più grassa, si intingeva nella cene­re dejo fuoco jo stregame, uno straccio utilizzato per lavare i piatti e si pas­sava su di essi. Si utilizzava la cenere sfruttando il suo contenuto naturale di potassa per sgrassarli alla meglio, del resto non esistevano i detersivi. Come ancora era introvabile la varecchina, e per disinfettare e detergere le lenzuo­la si faceva, periodicamente, la colata, (la lisciva) utilizzando acqua bollente e cenere privata dei pezzetti di carbone. Non ricordo bene il procedimento, ma so che era molto laborioso e richiedeva la collaborazione di altre donne. Però ricordo perfettamente che le cucine o i locali in cui si faceva, erano talmente sature di caldo e vapore acqueo, da assomigliare ad una bolgia infernale.

Proseguendo sui sistemi di pulizia di allora, è bene ricordare che benché il sapone in pezzi solidi fosse già presente, era consuetudine farselo anche in casa. Quando si sacrificava il maiale, si usava tutto il grasso diversamente non utilizzato, compresa la morchia dell’olio depositata nei fondi delle otti­ne, mettendolo a bollire, insieme alla soda caustica dentro la cottora. Dopo una lunga bollitura, raffreddandosi si solidificava, dopo di che per usarlo ve­niva tagliato in pezzi.

Per trasportare i panni da lavare e quelli lavati, non essendo stata inven­tata ancora la plastica, si usavano; o la concaspasa in rame o la bagnarola in lamiera zincata, contenitori che a volte erano più pesanti dei panni bagnati trasportati. La bagnarola poi, fungeva anche da vasca da bagno. Credo che, per l’igiene personale, fossero presenti già le saponette, ma spesso si uti­lizzavano quelle che venivano chiamate le stacchie del sapone da bucato. La stacchia era il residuo del pezzo di sapone assottigliato che non poteva più essere usato per lavare i panni; non quello fatto in casa però, dato che era più aggressivo, se non addirittura corrosivo.

Quasi tutte le donne contadine, una volta a settimana facevano il pane. C’erano molti forni privati all’interno del paese, gestiti dalle fornare, che ave­vano il compito di portare il forno alla giusta temperatura, controllare la cot­tura e di avvisare le donne che si erano prenotate, quando era ora di portare il pane da infornare. Ogni donna, sulle proprie pagnotte, faceva dei simboli o metteva le iniziali del proprio nome, con la pasta dell’impasto, per ricono­scerle dopo la cottura. Con jo tavolello, le portava a cuocere e le riprendeva cotte.

L’acqua veniva attinta, con la conca di rame, alla fontana, dove in alcune ore si formavano delle file consistenti, che erano delle occasioni d’incontro, ma a volte anche occasioni di scontri verbali e addirittura fisici. Durante la fila, sia per il carattere sanguigno di alcune donne, spesso definite bricattiere, quelle che nze faceno passa’ la mosca sotto jo naso, sia per problemi di fila, sia per vecchi dissapori, alcune volte si scagliavano fisicamente come furie le une contro le altre, provando a strapparsi i capelli reciprocamente; faceno a capii insomma. Le femmene bricattiere erano comunque una piccola mino­ranza, ma erano “tremende”, avevano come si diceva, n’ardire che sottomet­teva anche i mariti. La restante parte delle donne avevano un carattere mite e bonario, come la maggior parte della popolazione di Genazzano.

Quanto riportato è solo una piccolissima parte del lavoro che svolgeva una donna di allora ed è sorprendente e ammirevole che nonostante questo duro lavoro, riuscisse a strappare dal suo poco riposo, del tempo da dedicare sia ai figli sia ai lavori a maglia; no steno mmai co lle mani mmani, come si dice in dialetto. Insieme alla sua bonarietà, la donna aveva anche un forte carattere, con il quale di fronte alle avversità che caratterizzavano spesso le stagioni e riducevano di molto i raccolti, esse riuscivano, addirittura ad infon­dere coraggio ai propri mariti.

Come abbiamo riportato, tutto quello che l’uomo trasportava sulle spalle, la donna, magari in quantità leggermente inferiori, lo trasportava sulla testa, ripartendo il carico per mezzo della curuoja. Chissà quanti quintali sono pas­sati sulla testa delle nostre nonne, eppure io non ricordo nessuna lamentarsi ne del mal di schiena ne della cervicale…forse era proprio questione di “spi­na dorsale” diversa… in tutti i sensi.