Il fascino della “spianatora”

Fino ai primi anni 50, i giovani di Genazzano non avevano ancora altra prospettiva di vita, se non quella di seguire la dura esperienza dei genitori. Il lavoro che facevano era a dir poco bestiale. In alcuni periodi zappavano il terreno dal lunedì al sabato compreso, e la domenica mattina si alzavano addirittura prima, per andare a fare quella che chiamavano la “mezza gior­nata pe jo sciupo”; perché i soldi guadagnati durante la settimana andavano alla famiglia, quelli della domenica mattina restavano a loro per le piccole spese. Nonostante la durezza della vita erano, come tutta la popolazione, molto socievoli; infatti in alcuni periodi stagionali quando dovevano lavorare il proprio terreno e la campagna richiedeva lavori pesanti, spesso gruppi di giovani amici, si accordavano “pe dasse i cagni”. “Dasse i cagni” significava che si organizzavano per lavorare tutti insieme, a turno, un giorno da uno e i giorni seguenti dagli altri, per ricominciare poi il giro, fino a completamento dei lavori. Tale abitudine ai fini del lavoro prodotto, non è che ne cambiava molto gli effetti, però assecondava quella necessità di socialità che richiede­va il loro bonario carattere e rendeva il duro lavoro più sopportabile.

Il giorno pranzavano alla “taja”; per “taja” si intende la linea di demarca­zione tra il terreno lavorato e quello da lavorare, e mangiavano normalmente pane e verdure ripassate in padella. In quel tempo il pane cominciava ad essere sempre più presente nella alimentazione quotidiana, infatti da alcuni anni aveva iniziato a sostituire la “pizza di pulenta” e “jo tuto de pulenta”, che erano onnipresenti da secoli nella alimentazione dei nostri avi.

…(Ricordo alcuni vecchi, quando raccontavano delle privazioni alimentari su­bite, esprimersi: “tenemmo na fame aremessa!…” e “tenemmo sempre la fame attaccata a centa”, dove “centa” sta per cinghia, vale a dire che se la portavano sempre dietro, come “fame aremessa” sta per conservata, fame atavica, mai soddisfatta. Fame non appagata, non perché non mangiassero quantitativamente abbastanza, ma perché nonostante l’alimentazione an­dasse migliorando essa non era ancora sufficientemente equilibrata ed era molto carente di proteine di origine animale, la carne insomma era ancora abbastanza rara)…
Dopo il lavoro in campagna, sapevano che la sera li aspettava per cena la solita minestra di pasta e “facioli”, o solo i “facioli”, però sapevano anche, che durante questo scambio “d’opera” per i giovani ci sarebbero state cene più gradite, e la prospettiva di quelle cene, oltre al fatto di lavorare insieme,
alimentava il loro buonumore per tutta la giornata. Difatti a sere alterne si cenava tutti insieme, almeno una volta, a casa dell’uno o dell’altro, dove la premura della madre di turno, cosciente del pesante lavoro che stavano fa­cendo, li rifocillava con una generosa “spianatorata de gnocchi”.

La “spianatora”, oggi quasi in disuso, è stato uno degli utensili più usati in cucina, ed era amata da tutti, giovani e meno giovani, questo perché sape­vano che su di essa potevano essere distesi tutti i tipi di “gnocchi”, compresi i “maccaruni” (i più agognati di tutti), e alla prima neve anche la “pulenta”, ma non la minestra, ai più poco gradita. Su di essa venivano fatti tutti gli im­pasti compresi quelli per la pasta, dove veniva stesa, tagliata e dopo cottura condita e nelle famiglie numerose o come nel caso che stiamo descrivendo, veniva usata anche come unico enorme piatto di portata. Quando ci si se­deva intorno ad essa, sollecitati da tutto quel ben di Dio, si dimenticavano le monotone e poco gradite minestre serali, si esaltava la convivialità, si ride­va e si scherzava e la stanchezza accumulata durante il giorno scivolava via. Atteso l’invito all’inizio da parte del padrone di casa, si procedeva quasi con maestria nel tracciare con la forchetta una linea semicircolare per staccare la propria porzione dal resto. Finita la prima porzione se ne staccavano altre, poi piano piano alcuni cominciavano a rallentare nel procedere perché sazi; invitati a proseguire dal padrone di casa, riprendevano, ma dopo qualche svogliata forchettata cedevano definitivamente ed allora solo i più tenaci riu­scivano ad arrivare alla “meta”.

Come abbiamo riportato, allora si mangiava quantitativamente abbon­dante e in quel tempo avevano preso piede le forchette “personalizzate”, oggi definitivamente scomparse, in casa ognuno aveva la sua. Esse erano realizzate con un tipo di metallo molto duttile, forse allumino, che ne per­metteva le modifiche, difatti i denti venivano allargati a dismisura, al punto che raccoglievano talmente tanta pasta che a malapena riuscivano a far en­trare in bocca.

Note

1) “La pizza de pulenta”, era un impasto di acqua e farina di mais, stesa e cotta su una pietra sottile arroventata dalla brace del fuoco. La pietra carat­teristica dei terreni argillosi delle “loveta” veniva chiamata “tevela”.

2) “Jo tuto de pulenta” era sempre un impasto di acqua e farina di mais, però cotto al forno. La pizza era più gradita perché più sottile e croccante e veniva cotta e mangiata calda, “jo tuto” invece veniva preparato e cotto in quantità maggiore e veniva conservato per un po’ di giorni. Durante la conservazione assorbiva l’umidità dell’aria e diventava molliccio al punto che era poco e niente gradito.

Di questo tipo di alimentazione dei nostri avi, ce ne da una precisa descrizio­ne lo storico tedesco Gregorovius che soggiornò a Genazzano in due periodi. Il primo a metà anni 50 e il secondo a metà anni 60 dell’ottocento. Descrizio­ne riportata nel suo libro – Passeggiate per l’Italia- vol. 1.