L’omissione dell’uso della lettera h nel verbo avere

Nel trascrivere le espressioni dialettali riportate nel testo, abbiamo rispet­tato le regole della grammatica italiana, finché non ci siamo imbattuti in al­cune parole che se venivano scritte secondo tali regole, non permettevano più la loro originale pronuncia.

Da una sommaria ricerca effettuata il problema sembra essere limitato solo “dall’incontro” delle particelle pronominali con alcune coniugazioni del verbo avere. Nel nostro dialetto esse si fondono con il verbo, determinando un’unica parola, a differenza dell’italiano, dove nella generalità dei casi ven­gono scritte e pronunciate separate.

Ad esempio, nel detto: “che cià che ffa’ la jatta se la padrona è matta”! la parola “cià”, generata dalla particella pronominale – ci – e da – ha – del verbo avere, in italiano si scrive – ci ha -, il che porta a pronunciarle separatamente, mentre nel nostro dialetto ha una pronuncia unita e netta. Diversamente non è possibile apostrofarla se non si elide la vocale i, ma eliminando la i si scriverebbe: c’ha e si leggerebbe ca e non cià. Da una breve analisi è risul­tato che le particelle pronominali, sono presenti in forma diversa nel nostro linguaggio. Infatti in base all’ordine di scrittura della frase, si può trovare; “mià fatto…, tià dato…, cià visto…, bbià portato…”, che non possono essere, ne apostrofate per dare continuità fonetica alla parola ne prendere la lettera h. Diversamente altre forme utilizzate, potrebbero oltre all’apostrofo pren­dere anche la lettera h. E’ il caso di: “m’à fatto…, t’à dato…, bb’à portato…, “. Ad esempio, se noi scriviamo: “isso m’à dato j’umbrello”, oppure, “j’umbrello mià dato isso”, pur non cambiando il senso della frase, una può prendere la lettera – h– e l’apostrofo senza cambiare pronuncia, l’altra non può farlo. Nel­la breve analisi della nostra grammatica ci siamo anche accorti che il verbo avere, è poco presente nel nostro dialetto e viene utilizzato solo nelle forme – ha – (à) e – hanno– (ào), perché sostituito quasi completamente dal verbo tenere. Non esistono le forme; ho, hai, abbiamo e avete, esse sono sosti­tuite dal verbo essere. Cosa curiosa è che in alcune declinazioni è presente il verbo avere solo nella terza persona sia singolare sia plurale, mentre nelle altre persone singolari o plurali è sostituito dall’ausiliare essere. Esempio: Io sò fatto, tu sì fatto, isso à fatto, nu semo fatto, u sete fatto issi ào fatto.

Facilitati dal fatto della sola presenza della forma ha (à) e hanno (ào) del verbo avere e per non generare confusione, abbiamo pensato di non utilizza­re la lettera h e l’abbiamo sostituita, come si vede, accentando la a, per non confonderla con la congiunzione. L’uso della lettera h nell’italiano nei secoli scorsi ha avuto del resto autorevoli sostenitori come autorevoli contrari, ed alla fine si è accettato l’uso solo per distinguere le forme verbali da altre parole.

Lo stesso problema lo abbiamo ritrovato anche in altri dialetti. Addirittura l’Accademia Romanesca rinnega il verbo Avere, e lo sostituisce con il verbo “Avecce”, che viene declinato: “io ciò, tu ciai, lei cià, noi ciavemo voi ciavete loro cianno”, ed asserisce perentoriamente che solo questa è la forma or­tografica corretta, tutto il resto è “sbajato”. Del resto un autorevolissimo scrittore dialettale come G. G. Belli in un suo sonetto scriveva: “Su l’anticaja a piazza Montanara ciànno scritto…”