Curiosità paesane e grammaticali


Antiche, bonarie e scherzose distinzioni, vedevano fino a non molti anni fa, i cittadini di genazzano divisi: in “chii de pammonde” e “chii de pabballe”; e in “gelatari” e “grandinati”.

La prima suddivisione era determinata in base alla zona di residenza nel paese. Credo facessero parte de chii de pabballe gli abitanti della parrocchia di S. Paolo, tutti gli altri erano de pammonde.

La seconda distinzione, riguardava invece la zona in cui si possedevano i terreni. I “grandinati” erano i possessori dei terreni collinari, posti nella zona nord-est del territorio del paese, zona soggetta alla avversità metereologica della grandine, e nella stragrande maggioranza quei terreni erano di proprietà de “chii de pammonde”. I proprietari dei terreni posti a sud, erano invece i “gelatari”, perché le loro colture erano soggette alle tardive gelate primaverili.

Benché le due avversità distruggessero o riducessero di molto i raccolti, ciò non intaccava il buon umore dei nostri vecchi che riuscivano a scherzare anche su esse

Nonostante la forma umoristica o di sfottò, queste distinzioni avevano sicuramente radici storiche antichissime, sembra quasi che Genazzano non si sia formato attraverso l’estensione della propria popolazione, ma bensì come se fossero stati accostati due gruppi diversi.

Non mi addentro oltre nella questione, perché non è argomento di questa pubblicazione, ho solo sfiorato questo argomento, perché mi preme far no- tare, che nella zona di “S. Giuanni”, e di via Brancaleone, sono rimasti in uso fino a poco tempo fa in alcune famiglie, termini antichissimi, che io, essendo “de pabballe” non avevo mai sentito.  Credo che tali termini si sono conser- vati più a lungo in quella zona, perché essa è rimasta un po’appartata rispetto al resto del paese.  Non a caso il modo di dire di quella zona, per indicare la parte bassa del lato est del paese, viene usata la frase: “attera pe desotto”. Terminologia mai arrivata, e mai usata da “chii de pabballe”; dove si diceva: attera, abballe, desotto ecc… senza utilizzare il doppio termine rafforzativo.

Altra particolarità della zona alta del paese, è il termine “panonto” piuttosto che “palonto” più in uso nella parte bassa.

 

1)     Ricchezza di termini per indicare lo stato fisico di una persona pro- vata dalla forte stanchezza: sgujato, sdellommato, sderenato, sconocchiato, smerollato, scognontato, sdivisato…

 

2)     L’uso di alcuni termini che danno indicazioni precise: “pe ritto a mon- te” e “pe ritto a balle”, indicano il modo di procedere nel senso longitudinale del paese, rispettivamente, in salita e in discesa. “Pe ritto ngima” e “pe ritto attera”, indicano invece il senso di marcia, nel salire o nello scendere ai lati del paese, dove ci sono vicoli con salite o discese più ripide.

 

3)     Nel passare dal singolare al plurale, alcuni termini non cambiano solo l’ultima vocale, ma cambiano anche la prima, ad esempio: la “rotta” (la grot- ta), diventa le “rutti” (le grotte).  Altri invece oltre l’ultima vocale cambiano anche la seconda, ad esempio: passone, diviene “passuni”; oppure “sfonno- ne” diventa “sfonnuni”.

 

4)     Altri termini, passando al plurale, possono essere al maschile o  al femminile ad esempio: “jo solico” (il solco), diventa indifferentemente, “i su- lichi”, o “le solica”; ancora, jo “calecagno”, diventa i “calecagni” o le “caleca- gna”. Il singolare del polso, “jo pozzo o jo porzo”, al plurale diventa “le pozza o le porza”, o al maschile “i purzi”. L’uliveto, “jo loveto”, gli uliveti “le loveta” o con un termine più recente “i loviti”, “j’uosso” diventa “l’ossa o j’uossi”…

5)     Molti termini al singolare hanno la forma maschile, al plurale invece assumono la forma femminile, es. “jo pierzico”, “le pierzica”, che in questo caso la forma al femminile può essere usata anche al singolare la “pierzica” (tutti indicano sia l’albero sia il frutto delle pesche), come per “jo pero”, “le pera”.

 

6)     Alcune parole, passando dal plurale al singolare assumono un doppio significato, ad esempio: “accela” ( il nome della gazza), e “accele” è si il plura- le di “accela”, ma nel modo di dire, “sta a ffa l’accele”, si riferisce a qualcuno che sta è in fin di vita (chissà perché) ; lo stesso vale per “cazzetta”, (calza), che al plurale diventa “cazzette”, ma l’espressione; “sta a ffa le cazzette” ha lo stesso significato riportato sopra.

7)     Vi sono lettere che possono venire omesse, a piacimento senza che si alteri il significato della parola.   La lettera V non sempre viene pronunciata, e se viene pronunciata, in alcuni termini diventa foneticamente una mezza lettera appena percettibile; ad esempio: “votte” o “otte”, ha sempre il signi- ficato di botte; oppure, “occa” o “vocca” (bocca), “ottina” o “vottina”. Anche la preposizione articolata, corrispondente a -del- in italiano, si usa indifferen- temente, nella forma “dejo” oppure “deo”.

 

8)     Ultima curiosità che, come sopra viene riportata come tale, senza approfondirla, perché richiederebbe moltissimo spazio, è quella di alcune lettere che cambiano, ammorbidendosi nella pronuncia, se sono precedu- te o meno dalle lettere M ed N.   La C, assume il suono di G; la F di V; la P di B; la T di D. Ad  esempio:  “comenzà” (cominciare) diventa “ngomenzà” (incominciare);     intignare, da “tigna”, si pronuncia “ndignà”;    se dobbia- mo dire, un cane, diciamo o “no cane”, oppure “ngane”, (quando si tronca l’articolo e la C iniziale viene a contatto diretto con la lettera N,  in molti casi essa diventa G);  lo stesso avviene per “no cenico” e “ngenico”;   un poco, si può dire, “puoco”, “no puoco” oppure “mbuò”;   l’atto di disporre le canne come sostegni (incannare), diventa, “ngannà”.   In altri termini invece, c’è un rafforzamento nella pronuncia, come nei casi di: insaccare, atto di riempire il sacco, (“jo sacco”), diventa “nzaccà”; in riferimento al comporre la “serta”, diciamo “nzertà”.   Ma non tutte queste pronunce sono chiare e nitide. Sem- pre riguardo le lettere riportate sopra e precedute dalla N e dalla M, esse in alcuni termini, assumono un suono non ben definito, tanto che possono venire usate indifferentemente sia l’una che l’altra. Ad esempio, mettere un peso in testa, attitudine delle donne di qualche generazione fa, nel portare i carichi, tipo la bagnarola con i panni, “jo tavolello” per il pane ecc… si dice: “mbonne” o “mponne”, mentre l’atto di togliersi il carico dalla testa si dice “sponne”, dove il suono della P è netto e nitido. Ancora: “conca” e “conga”, “pammonte” e “pammonde”, ecc…